Il mondo della danza è intriso di un desiderio quasi mistico, un’ossessione che venera una curva specifica e spietata: il collo del piede. È quel dettaglio anatomico che, agli occhi di chi vive di questa arte, distingue il divino dal terreno, l’oggetto del desiderio bramato da uomini e donne in sala ballo. Da sempre, nell’ambiente coreutico, questa caratteristica ha alimentato discussioni infinite e complessi difficili da sradicare. Chi non è stato baciato dalla fortuna genetica fin dalla tenera età tenta l’impossibile: piedi incastrati sotto i divani, utilizzo di cinghie, bende elastiche e macchinari che ricordano strumenti di tortura medievale. Si è disposti a tutto pur di vedere la caviglia disegnare quella curva sensuale ed espressiva al momento di stendere la punta. Nell’olimpo dei grandi interpreti circolano leggende su sacrifici estremi; la stessa Carla Fracci, icona nazionale, ha raccontato più volte di aver immolato la sua gioventù mettendo i piedi sotto al calorifero per forgiarne la forma.

L’arte dell’illusione estetica

Tuttavia, bisogna arrendersi a una verità fisiologica spesso amara: chi non possiede naturalmente quella mobilità articolare potrà esercitarsi all’infinito senza ottenere risultati estetici eclatanti. Sarebbe indubbiamente più saggio investire quelle energie sulla funzionalità del movimento piuttosto che sulla mera forma, ma la pressione psicologica è forte. Ricordo nitidamente il caso di un collega con cui condividevo la classe professionisti, il quale, anziché struggersi nell’inseguimento di una geometria impossibile, aveva optato per un ingegno pratico e quasi diabolico. Molto prima che il mercato proponesse protesi in silicone – oggetti che promettono il miracolo ma che raramente si vedono usare alla luce del sole – lui aveva ideato un sistema artigianale per simulare il collo del piede perfetto.

Osservarlo prima della lezione era come assistere a un rituale di trasformazione: ripiegava con cura un calzino per dargli lo spessore voluto, lo posizionava sulla caviglia e lo bloccava incastrandolo sotto gli elastici incrociati delle mezze punte, appositamente cuciti per quello scopo. Per uniformare il tutto e nascondere l’artificio, indossava uno o due pedalini sopra le scarpe, rigorosamente neri, e rimboccava gli scaldamuscoli nel punto strategico. Il risultato era un’illusione ottica impeccabile che dissimulava il “bozzo” artificiale e regalava una linea continua e invidiabile. Sebbene l’uso di tale finzione durante una lezione, momento deputato al confronto con i propri limiti, possa lasciare perplessi, era evidente che quel piccolo trucco gli conferisse una sicurezza necessaria, gratificandolo e facendolo sentire a suo agio nel severo specchio della sala danza.

Oltre la forma: la rivoluzione del colore

Se da un lato c’è chi ricorre a stratagemmi per aderire a un canone morfologico, dall’altro c’è chi sta combattendo una battaglia ben più profonda per rompere gli schemi cromatici e culturali di questa disciplina. Il balletto, noto per la sua grazia e la rigida disciplina, porta con sé tradizioni che per lungo tempo sono state esclusive piuttosto che accoglienti. È il caso delle sorelle Reagan e Paige Nevels, due ballerine che stanno portando la loro esperienza personale dal palcoscenico locale al grande schermo, accendendo i riflettori sul tema dell’inclusività.

Reagan Nevels ha evidenziato con lucidità come l’uniforme classica sia stata concepita storicamente per i ballerini caucasici. “I collant rosa sembravano semplicemente un’estensione del loro corpo”, spiega la ballerina. “Scarpe rosa, calze rosa: tutto appariva come una versione elegante delle loro gambe nude sul palco”. Tuttavia, per chi ha una carnagione diversa, quell’uniforme non crea la stessa linea continua; al contrario, spezza la figura in modo innaturale. Entrambe le sorelle hanno iniziato a studiare presso il Ballet Western Reserve all’età di quattro anni, ma quella sensazione di estraneità rispetto all’abbigliamento standard non le ha mai abbandonate.

Una scelta di coraggio e il debutto cinematografico

La svolta è arrivata quando Reagan ha fatto una scelta audace: presentarsi a lezione indossando collant e scarpette marroni, abbinati al suo incarnato. “Volevo solo avere quel momento per mostrare cosa fosse vero per i ballerini neri, o per chiunque abbia la pelle olivastra o più scura. Quell’uniforme standard semplicemente non va bene per tutti”, ha dichiarato. Questo gesto, apparentemente semplice, ha innescato una conversazione molto più ampia, ispirando la realizzazione del film “The Pointe of View: The Story of a Brown Ballerina”.

Le riprese, iniziate nell’estate del 2024 principalmente presso il Ballet Western Reserve e in altre location di Youngstown, raccontano una storia di auto-affermazione. Paige, seguendo le orme della sorella maggiore, ha adottato lo stesso stile, interpretando ruoli da protagonista come Biancaneve con collant e scarpe marroni. “Spero che le persone colgano dal film il nostro viaggio attraverso il balletto e quanto lontano siamo andate per sentirci incluse e non avere paura di parlare”, ha affermato Paige. Nonostante le difficoltà, entrambe riconoscono che la danza ha plasmato le donne che sono diventate oggi, donando loro la sicurezza necessaria per affrontare il mondo.

La pellicola debutterà mercoledì 17 dicembre alle 19:00 presso il Gold Star Theater di Austintown. Per le sorelle Nevels, vedere la propria storia proiettata sullo stesso schermo dove solitamente guardano i blockbuster è un traguardo surreale, un potente messaggio per tutte le ragazze che sentono di non avere spazio in questo mondo: lo spazio, a volte, bisogna crearselo da sole.